Di cosa l’uomo ha veramente bisogno?

Articolo per l'incontro di Caprarola (23-24-25 maggio 2008)

1.

Un termine che viene utilizzato da diverse discipline è per ciò stesso sospetto perché implica un’eccessiva flessibilità concettuale. Di bisogno parlano fisiologi, psicologi, sociologi, economisti, filosofi e teologi, facendo riferimento, in genere, alla mancanza di “qualcosa”, ad uno stato carenziale che viene percepito, consciamente o inconsciamente, sotto forma di desiderio e promuove un comportamento orientato a soddisfarlo.

In questa accezione, lo spettro dei bisogni va dal percepire un languore allo stomaco, che spinge ad alimentarsi, all’esperire un vuoto interiore che orienta verso l’unione con Dio. Nello spettro si può far rientrare tutto ciò che gli uomini desiderano, a cui aspirano e perseguono.

E’ evidente che una definizione così generica non serve a nulla. Occorre, pertanto, anzitutto, differenziare bisogno e desiderio. Sulla base di ciò che ho scritto di recente nell’articolo Cervello, Mente e Infinito, la differenziazione risulta abbastanza semplice.

Sia il bisogno che il desiderio fanno riferimento ad uno stato carenziale, ma mentre il primo è orientato verso soddisfazioni possibili, il secondo tende a trascendere ogni limite in nome di un obiettivo identificabile con un appagamento totale.

Il bisogno “naturale” ha rapporto con le esigenze psicofisiche di un essere complesso, il desiderio con esigenze legate ad un aspetto specifico della complessità dell’apparato mentale, lo scarto tra finito e infinito che esso tende a colmare.

Posta in questi termini, la differenza sembra chiara. In realtà il confine tra bisogno e desiderio è difficile da delineare.

C’è in ogni essere umano una tensione desiderante che tende a trascendere le sue reali esigenze. Per un verso, essa sollecita l’uomo a scoprire la ricchezza dei suoi bisogni e a realizzarli; per un altro, lo orienta verso il miraggio di una soddisfazione infinita che estinguerebbe la sua mancanza ad essere.

L’ambivalenza di tale tensione è il nodo della condizione umana, che giustifica il porsi il problema di cosa l’uomo ha veramente bisogno.

Su di essa, infatti, fanno leva tutte le tecniche di manipolazione culturale.

Un esempio piuttosto semplice è il seguente. Una banale influenza, un mal di testa, un ascesso dentario, una contusione ci pongono di fronte al problema del dolore e, se siamo appena un poco introspettivi, all’intolleranza che abbiamo nei confronti di esso in rapporto a tutti gli altri animali. Che cosa si cela dietro questa intolleranza? Di sicuro, una percezione angosciosa della vulnerabilità, che è costitutiva di ogni organismo biologico, ma solo nell’uomo produce il desiderio di un affrancamento totale.

Su questa base, riesce facile capire l’effetto della pubblicità degli antinfluenzali, antalgici, antinfiammatori, ecc., che fanno vedere in rapida sequenza un soggetto accasciato dai sintomi che, dopo avere preso una compressa, saltella felice come una pasqua. Anche se spettacolarizzata, in questo caso la pubblicità ha un certo grado di verità, perché i farmaci in questione un’efficacia sintomatica di solito la hanno.

Colto il punto debole, però, è stato facile per l’industria approfittarne ed estendere il potere magico delle medicine a tutti i mali di cui l’uomo soffre: ansia, depressione, ecc. Questa estensione implica una risposta che non verte sul bisogno umano di soffrire il meno possibile, bensì sul desiderio di non soffrire affatto. Desiderio legittimo, ma, in molti casi, incompatibile con la necessità di soffrire per capire meglio l’organizzazione del proprio mondo interiore.

E’ la tensione desiderante, il cui obiettivo è il superamento definitivo della nostra condizione esistenziale, il punto debole della natura umana, che può promuovere l’induzione e lo sviluppo di falsi bisogni.

L’analisi della tensione desiderante può essere facilitata riconducendola a due diversi aspetti dell’apparato mentale umano.

Il primo fa capo al fatto che ogni cervello umano contiene indefinite potenzialità che in parte servono a promuovere l’adattamento individuale, ma in gran parte sono potenzialità della specie che servono a promuovere la sua evoluzione culturale.

Depositate nell’individuo, esse non sono utilizzabili da parte sua che in maniera limitata.

Se viene meno la consapevolezza che la complessità del nostro cervello contiene queste potenzialità generiche (vale a dire del genere umano), il rischio che l’Io cada nella trappola del desiderio infinito sussiste.

Faccio un esempio piuttosto semplice, ma significativo. Un bisogno sicuramente naturale, che fa parte del nostro corredo genetico, è il bisogno di realizzare con un partner un’unione intima e condivisa, che consenta, nel corso degli anni, di costruire un rapporto che, ad un certo punto, può essere avvertito come appagante, unico e non riproducibile.

Oggi, a livello giovanile, tale bisogno viene quasi sistematicamente interferito da una claustrofobia affettiva che induce i soggetti, poco dopo che sviluppano una relazione, a sentirsi soffocati e demotivati.

La claustrofobia affettiva ha cause molteplici, ma una delle più frequenti fa riferimento ad una “strana” logica. Il soggetto valuta il partner e, cogliendo in esso dei difetti estetici o caratteriali, che in sé e per sé potrebbero non essere incompatibili con un’esperienza significativa, si chiede perché dovrebbe accontentarsi e rinunciare ad ulteriori scelte che potrebbero risultare più soddisfacenti. Sul piano razionale, tale logica sembra inoppugnabile.

Qual è il problema? Che essa, data la finitezza degli esseri umani, può applicarsi a qualunque individuo con cui si è in relazione, e, dunque, cela l’alienazione del bisogno relazionale in un desiderio rivolto immaginariamente verso un partner dotato di infinite qualità.

La stessa logica perfezionistica può essere applicata dal soggetto a se stesso con esiti non meno negativi. E’ quanto accade nel corso delle esperienze anoressiche.

Tutte le anoressiche mirano a realizzare un ideale estetico di perfezione, che estingua il giudizio negativo che sperimentano mettendosi di fronte allo specchio. In alcune, però, tale ideale riconosce come criterio di realizzazione non il modo in cui la persona si vede, ma quello in cui gli altri la vedono.

Ciò significa, né più né meno, che alcune anoressiche sognano di realizzare un aspetto a tal punto attraente da attirare su di sé gli sguardi di tutti gli uomini che incontrano. Qualche volta, tale desiderio si realizza, ma solo perché il soggetto interpreta gli sguardi, che vengono attratti dalla magrezza patologica, come sguardi desideranti

Il secondo aspetto è anch’esso legato alla complessità del nostro cervello.

A differenza degli animali, che hanno una straordinaria capacità di adattarsi alle frustrazioni legate alle circostanze della vita, l’uomo alberga un bisogno di felicità che promuove il suo potere di adattamento, inducendolo a trasformare l’ambiente che lo circonda, ma, al tempo stesso lo limita. Per l’uomo è più difficile che per tutti gli altri animali tollerare la frustrazione del bisogno di felicità. La frustrazione, infatti, attiva un meccanismo di compenso automatico un po’ particolare che ho denominato principio di ridondanza.

C'è un esempio elementare per capire di cosa si tratta: quello, che ho citato più volte nei miei scritti, dell'assetato nel deserto, il cui bisogno reale è di qualche litro di acqua, ma che, nella sua fantasia, ne desidera una quantità infinita.

Il principio di ridondanza può essere espresso dicendo che ogni bisogno fisiologico o psicologico impedito o gravemente frustrato nella sua realizzazione tende ad intensificarsi e ad infinitizzarsi.

Questa trappola è addirittura peggiore della prima, anche se complementare ad essa, perché se e fin tanto che un soggetto non capisce ciò di cui ha veramente bisogno egli percepisce come suo bisogno il desiderio infinito.

Nel caso dell’assetato nel deserto, lo scarto tra bisogno autentico e logica desiderante è evidente. Molto più difficile è capire come il principio di ridondanza incide nella nostra vita di tutti i giorni. Si può essere certi, però, che incide, generando desideri che eccedono di gran lunga i nostri bisogni autentici.

Il desiderio è un gioco della mente, che insegue il miraggio dell’Infinito. Utile nella misura in cui sollecita l’uomo ad andare al di là del qui ed ora, e quindi ad evolvere, esso nondimeno è pericoloso perché, in ultima analisi, tende verso un’impossibile soddisfazione che estinguerebbe ogni inquietudine esistenziale.

Non potendo inattivarlo, il problema è utilizzarlo come motivazione dinamica che concorre alla realizzazione dei bisogni autentici. Ma il problema è proprio questo: quali sono i bisogni autentici? Di che cosa l’uomo ha veramente bisogno?

2.

L’eccessiva estensione e la genericità del termine bisogno spiega le incertezze con cui la psicologia si è confrontata con questo tema, finendo in un vicolo cieco tale per cui nel Trattati di psicologia oggi esso non è citato se non di sfuggita.

Non vi affliggerò con le diverse tabelle attraverso le quali gli specialisti hanno tentato di classificare i bisogni in quanto motivazioni che traspaiono attraverso i comportamenti. Ne cito solo due, che hanno avuto in passato una certa notorietà.

La prima risale a Henry Alexander Murray (1893-1988), che, nel 1938, distingue i bisogni viscerogeni (fisiologici) da quelli psicogeni e li elenca come segue:

1) bisogni che hanno relazione con gli oggetti inanimati come acquisizione, conservazione, ordine, tesaurizzazione e costruzione;

2) bisogni che esprimono ambizione, forza, desiderio di riuscita e di prestigio come superiorità, successo, considerazione, esibizione, integrità, difesa, reazione;

3) bisogni relativi all'esercizio del potere come dominanza, sottomissione, somiglianza, autonomia, indipendenza;

4) bisogni relativi ai torti verso gli altri e se stessi come aggressione, umiliazione, biasimo;

5) bisogni relativi agli affetti personali come gregarietà, rifiuto, protezione, soccorso;

6) bisogni socialmente rilevanti come gioco, conoscenza, esposizione.

La seconda invece è di Abraham Maslow (1908-1970) ed è nota come piramide di bisogni. Nella sua prima formulazione, che risale al 1954, essa distingue:

1) bisogni fisiologici (fame, sete, ecc.)

2) bisogni di salvezza, sicurezza e protezione

3) bisogni di appartenenza (affetto, identificazione)

4) bisogni di stima, di prestigio, di successo

5) bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).

E’ evidente che schemi del genere contengono qualcosa di intuitivamente vero, ma aggiungono poco a ciò che già fa parte del senso comune. Essi inoltre universalizzano obiettivi, come il successo e l’affermazione individuale, che non hanno lo stesso significato in tutte le culture.

I limiti della psicologia consentono di comprendere l’interesse per il problema dei bisogni manifestato da altri studiosi, filosofi e sociologi. Un riferimento classico, a questo riguardo, è legato a Marx, che distingue tra bisogni primari o essenziali e bisogni secondari o indotti (“la produzione non produce solo l’oggetto del consumo, ma anche il modo di consumarlo [...] La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale.”

Traendo spunto da Marx, è stato H. Marcuse a a parlare esplicitamente di falsi bisogni. La tesi di fondo di Marcuse è che la coscienza del cittadino medio occidentale è caratterizzata da un tratto specifico, la falsificazione, in nome della quale essa si sente libera senza esserlo, in virtù del fatto che scambia come propri bisogni i bisogni imposti dal sistema socio-economico (definiti impropriamente bisogni sociali):

"In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali." (L’Uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 9)

"L'apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della sua difesa e dell'espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria." (op. cit., p. 17)

Il controllo sulle coscienze è assicurato dall'interiorizzazione dei falsi bisogni, vale a dire da bisogni propri del sistema che vengono interiorizzati, vissuti e perseguiti come bisogni individuali:

"E' possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni "falsi" sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia… La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni." (op. cit., p. 19)

Sulla scia di Marx e di Marcuse, E. Fromm ha dedicato una grande attenzione al tema dei bisogni radicati nella natura umana, giungendo a identificarne cinque fondamentali (b. di avere uno schema di orientamento e un oggetto di devozione; b. di "mettere radici" attraverso legami profondi con gli altri; b. di creare unità con se stesso e il mondo esterno; b. di essere efficace; b. di stimolazione e di eccitazione), ciascuno dei quali può esprimersi secondo modalità proprie o improprie. Il bisogno di creare unità con se stesso e con il mondo esterno, per esempio, richiede una lunga maturazione della personalità per sormontare l’ansia generata dalla scoperta della propria realtà esistenziale impregnata di solitudine e giungere ad una qualche armonia con il mondo interno e quello esterno. Per sottrarsi a questa responsabilità, però, l’uomo può anestetizzare la propria coscienza con stati artificiali indotti dall’uso di droghe, dal lavoro e dal sesso compulsivo, ecc.

La riflessione di Fromm esita, infine, nella definizione di due modelli di sviluppo antropologico: quello dell'avere o quello dell'essere. L’avere, modello tipico della società industrializzata, costruita sulla proprietà privata e sul profitto, porta all'identificazione dell'esistenza umana con la categoria del possesso. Io sono le cose che possiedo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione l'uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l'uomo. L'identità personale, l'equilibrio mentale si fonda sull' avere le cose.

L’essere ha come presupposto la libertà e l'autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e all'arricchimento della propria interiorità. L'uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell'essere non è più alienato, è protagonista della propria vita e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri.

Per quanto ammiri profondamente Marx, Marcuse e Fromm, penso che le loro intuizioni vadano approfondite, per affrancarle dal rischio di risuonare come contestazioni sostanzialmente ideologiche e moralistiche della società dei consumi.

A tali contestazioni i difensori dello status quo oppongono obiezioni che, da trent’anni a questa parte, sono sempre le stesse.

Se gli uomini sono liberi, non è legittimo che organizzino la propria vita come meglio credono? Se avvertono bisogni di qualunque genere, non è un loro diritto perseguirne la soddisfazione? In rapporto alla complessità umana, vale a dire alla logica infinita dei desideri, chi stabilisce, e su quale base, che un bisogno è autentico o falso?

E’ ingenuo rispondere che la distinzione verte sul fatto che l’autorealizzazione sulla base dei bisogni autentici dà luogo ad uno stato di appagamento e di quiete interiore, mentre quella riconducibile a falsi bisogni produce uno stato di frustrazione e di insoddisfazione.

La prima asserzione ha un riscontro molto raro per cui è facile ricondurla a singole personalità dotate di attitudini del tutto particolari. Gran parte degli introversi, come sappiamo, nonostante siano dotati di uno spiccato bisogno di autorealizzazione e rifiutino visceralmente i bisogno ritenuti normalmente significativi, non sono affatto tranquilli e tanto meno appagati.

La seconda ha un riscontro frequente, ma non univoco. La frustrazione e l’insoddisfazione prodotte dal perseguire bisogni ritenuti falsi (da un osservatore esterno), infatti, sono di solito rimosse e, se percepite, vengono attribuite dal soggetto al non avere ancora raggiunto la meta desiderata. C’è anche chi vive di falsi bisogni e sembra cavarsela abbastanza bene.

E’ importante, dunque, capire come impostare il problema senza cadere nella trappola dell’ideologia o del moralismo.

3.

A tal fine, occorre partire da qualche presupposto che sormonti lo scarto, evidente in tutti gli studiosi (ad eccezione, almeno in parte, di Fromm), tra organizzazione biologica, esperienza soggettiva e appartenenza culturale.

Tale presupposto, estremamente semplice ma essenziale, è che tutti i bisogni percepiti, desiderati e realizzati dagli esseri umani debbano avere un fondamento nella struttura e nell’organizzazione del cervello umano. Si tratta di un presupposto ovvio, se si ritiene che la fisiologia del cervello e l’esperienza psicologica sono due facce di una stessa medaglia.

Ma esso semplifica molto le cose perché le conoscenze sul cervello sono ancora piuttosto scarse. Una sorta di maledizione che grava sulla specie umana è che noi siamo costretti ad usare quotidianamente un mirabile e complesso congegno prodotto dall’evoluzione naturale, che è stato impiantato nella nostra testa senza il libretto delle istruzioni.

Quello che sappiamo a riguardo è che esso ci rende consapevoli di esistere, produce un’ansia costante legata ai pericoli che incombono nel nostro orizzonte previsionale, che trascende il qui ed ora e, al tempo stesso, alimenta una tensione verso uno stato di benessere o, se si vuole, di “felicità”. Fluttua, insomma, più o meno ampiamente, tra dolore e piacere.

Sappiamo anche che l’uomo è un essere carenziale e sprovveduto sotto il profilo del corredo istintuale, che consente alle altre specie di adattarsi con una relativa facilità al mondo. Questo stato carenziale comporta due conseguenze: la prima, è il bisogno di solidarizzare e di stabilire rapporti significativi con gli altri; la seconda, è che la solidarietà non ha solo un significato affettivo. La cooperazione tra gli esseri umani è anche indispensabile ad agire sul mondo esterno al fine di trasformarlo.

Ente naturale, l’uomo non può vivere naturalmente: ha bisogno di un mondo artificiale, che egli deve produrre. Il mondo artificiale è quello della cultura: la cultura materiale, che è fatta di tecniche e di beni tratti dalle risorse naturali, ma anche la cultura “spirituale”, vale a dire un apparato di idee, di regole, di valori che gli consentano di orientarsi in un mondo caotico.

Sia i beni materiali che i valori culturali sono finalizzati ad alleviare il peso dell’esistenza, a porre l’uomo al riparo dalla sofferenza e a promuovere la ricerca della felicità.

Il problema, come accennato, è che l’uomo non ha ricevuto dalla natura un libretto di istruzioni. In conseguenza di questo egli deve procedere, sia sul piano materiale che spirituale, seconda la strategie dei tentativi e degli errori.

Il carattere sperimentale della specie umana non va mai ignorato perché esso significa, né più né meno, che l’uomo sta ancora tentando di capire come è fatto, quali sono i suoi bisogni e quale sia il modo migliore di vivere.

La ricerca sulla natura umana, insomma, è ancora in corso. Molti errori che gli esseri umani commettono sono riconducibili alla confusione che hanno su se stessi. Tale confusione talvolta è avallata dalla cultura.

Il peso dei condizionamenti culturali può essere esemplificato da un esempio storico di grande portata.

Oggi nessuno pone in dubbio che il bisogno di dignità e di libertà sia innato, faccia cioè parte del corredo genetico umano.

Per un periodo sterminatamente lungo di tempo (circa seimila anni), però, la cultura umana comportava la netta distinzione tra uomini liberi e schiavi. Tale distinzione non faceva riferimento solo al diverso potere e allo status: lo schiavo era, né più né meno, considerato una cosa, un “bene” utile al padrone di cui questi poteva disporre a piacimento. A noi questo appare assurdo al punto che viene da ricondurla all’arretratezza e all’ignoranza. Ma le cose non sono così semplici. Molti popoli primitivi, la cui attrezzatura tecnologica è elementare, riconoscono l’uguaglianza tra gli esseri umani e la loro pari dignità. Viceversa, non pochi filosofi dell’Antichità passati – tra cui, per esempio, Aristotele – ritenevano la schiavitù una condizione naturale, funzionale tra l’altro al fine di permettere agli uomini liberi di dedicarsi ad attività intellettuali.

La schiavitù, peraltro, è perdurata fino al tardo Ottocento. Negli Stati Uniti, per esempio, essa è stata abolita solo nel 1865. Ritardo sorprendente se si pensa che la Costituzione degli Stati Uniti, che ha promosso la prima democrazia al mondo riconoscendo la libertà come attributo essenziale dell’essere umano, è del 1787, ed è convissuta per quasi un secolo con la tratta dei negri. Ufficialmente, poi, l’abolizione internazionale della schiavitù è avvenuta solo nel 1948 con la promulgazione da parte dell’ONU della Carta dei Diritti Universali dell’uomo.

Il fenomeno storico della schiavitù attesta che la cultura ha un’ambivalenza intrinseca, nel senso che essa può valorizzare o reprimere e alienare la natura umana. Se ci mettiamo nei panni degli infiniti uomini liberi che hanno ritenuto naturale, se non addirittura voluta da Dio, la schiavitù, possiamo dire senza dubbio che essi vivevano come autentico un bisogno alienato di dominio e di controllo, nonché di sfruttamento, su altri esseri umani che, a posteriori, attesta un’anestetizzazione culturale dell’empatia. E’ ancora più inquietante pensare che infiniti schiavi, nel corso dei secoli, hanno accettato la loro riduzione a cose come naturale, rinunciando, se non raramente, a rivendicare la loro uguaglianza con i Padroni.

Il bisogno innato di dignità e di libertà ha impiegato dunque circa seimila anni ad essere riconosciuto come autentico e universale.

Cosa significa questo esempio? Né più né meno che, pur essendo depositario di bisogni autentici, l’uomo di fatto li vive, li sperimenta e li scopre attraverso il processo storico e il filtro della cultura. Questa dipendenza dell’esperienza umana dal contesto culturale comporta però il pericolo che i bisogni riconosciuti come tali da un gruppo o da un singolo individuo possano essere falsi.

Parlare di falsi bisogni può essere fuorviante, poiché l’aggettivo lascia in sospeso il problema se chi li sperimenta cade nell’inganno perpetrato da qualcun altro e/o inganna se stesso. Io preferisco, ormai da molti anni, parlare di bisogni alienati, vale a dire di bisogni la cui matrice ha un fondamento naturale, ma la cui fenomenologia e la cui realizzazione sono in misura più o meno rilevante errate.

Oltre che rinnovare una terminologia logorata dall’uso, il cambiamento pone al riparo dalla componente moralistica implicita nella concettualizzazione dei falsi bisogni.

Due esempi possono aiutare a capire questo aspetto.

In Italia, come noto, c’è la massima concentrazione europea di telefonini con una diffusione tra gli adolescenti e i giovani impressionante. L’uso che questi ne fanno ha evidenti aspetti alienati. Essi infatti se ne servono per alimentare una socialità comunicativa di superficie che si riduce al numero degli “amici” registrati nella rubrica e alla quantità di messaggini che inviano e ricevono con una velocità impressionante. L’alienazione, ovviamente, coincide con lo scambiare la quantità delle relazioni con la qualità. Più “amici” si hanno più ci si sente importanti e affrancati dalla solitudine degli “sfigati”, il cui telefonino è praticamente muto.

L’industria ha indubbiamente speculato sul bisogno che gli adolescenti hanno di sentirsi al centro dell’interesse degli altri. Come negare, però, che tale bisogno riconosce la sua matrice nell’esigenza di scampare alla scoperta della propria “insignificanza” esistenziale, che, in conseguenza di cambiamenti sociali e culturali, interviene sempre più precocemente? Certo non sono certo i messaggini a risolvere il problema. In difetto di altre soluzioni, che il mondo degli adulti dovrebbe proporre, essi però lo alleviano, sia pure illusoriamente.

Il secondo esempio riguarda il crescente gradimento che il pubblico manifesta nei confronti dei libri, dei film e dei telefilm gialli, incentrati sull’infallibile identificazione del colpevole. Tenendo conto che, dal punto di vista statistico, gli omicidi sono sostanzialmente rari, la passione del pubblico, che sta diventando compulsiva, sembra incomprensibile. L’industria ha scoperto questa debolezza e insiste a produrre opere che la alimentano. E’ senz’altro vera.

Si consideri però il problema sotto un’altra angolatura. Qual è la matrice di quella passione “morbosa”? L’esigenza di capire le motivazioni per cui un soggetto è spinto a sopprimere un simile. Dato che tali motivazioni sono sostanzialmente banali e ripetitive, come spiegare l’interesse del pubblico se non facendo riferimento al bisogno di capire il mistero dell’aggressività intraspecifica, che implica una difficoltà inconsapevole di farsene una ragione?

Tutto questo significa che i falsi bisogni riconoscono la loro matrice in bisogni autentici che, attraverso il filtro della cultura, si manifestano e si realizzano in maniera alienata.

Ma dove sono depositati, in ultima analisi, i bisogni autentici se non nello scrigno della natura umana, vale a dire nel cervello?

4.

Nell’Abbecedario e nell’articolo su Cervello, Mente e Infinito ho scritto parecchie cose a riguardo. Cerco di sintetizzarle.

L’uomo è un essere carente e sprovveduto non solo perché viene al mondo prematuro e impiega un tempo molto lungo a portare a termine il suo tragitto evolutivo. Nel creare la specie, la natura ha deciso di allentare criticamente il corredo degli istinti, che provvedono a favorire l’adattamento degli altri animali all’ambiente. L’uomo, per esempio, non è in grado di distinguere istintivamente tra cibi commestibili e non commestibili.

L’allentamento degli istinti ha prodotto un essere dotato di una grande libertà, della quale non avrebbe saputo che fare se non si fosse trovato inserito in un gruppo i cui membri avevano tutti lo stesso problema di sopravvivere. La libertà, associata alla sprovvedutezza, è stato il fattore che ha promosso la solidarietà e la cooperazione del gruppo, rendendo funzionale ai fini dell’adattamento un bisogno di appartenenza sociale che occorre ammettere innato.

Dell’importanza di questo bisogno, e del suo peso dinamico nella soggettività umana, noi ci rendiamo vagamente conto perché siamo inseriti stabilmente in un contesto sociale fin troppo affollato, che talora ci rende molesta la presenza degli altri. Coloro che, però, vivendo in un contesto urbano, sperimentano momenti di angosciosa solitudine, pagano un tributo pesante a quel bisogno che, nelle profondità dell’apparato mentale, fa rimbombare l’angoscia degli uomini primitivi per i quali essere solo e separato dal gruppo significava né più né meno non avere valore alcuno o essere esposto ad una morte certa.

C’è un’altra circostanza che ce lo restituisce. In situazioni di catastrofe, come nel corso di una guerra o dopo un terremoto, gli uomini, sperimentando l’universale vulnerabilità, sono naturalmente portati a solidarizzare e ad aiutarsi.

Il nostro cervello porta l’impronta delle sue origini. In esso si dà stabilmente la consapevolezza della propria e dell’altrui vulnerabilità e il riferimento all’Altro come essere capace di venire in soccorso e eventualmente bisognoso egli stesso di aiuto.

L’uomo, insomma, ha un insopprimibile bisogno sociale, che si può ritenere intrinseco alla sua natura. Ha bisogno di appartenere ad un gruppo coeso da un comune linguaggio e un sistema di valori e, all’interno del gruppo, che ormai è enormemente allargato, di costruire qualche rapporto significativo su cui contare.

Quest’ultimo aspetto va approfondito.

Nel contesto della nostra società l’appartenenza coincide con una serie di diritti la cui soddisfazione passa attraverso l’istituzionalizzazione della solidarietà: il diritto allo studio, all’assistenza sanitaria, alla pensione, ecc.

Per quanto importante, però, l’istituzionalizzazione della solidarietà non soddisfa il bisogno più profondo dell’essere umano, che fa riferimento ad una rete di rapporti affettivi che promuove uno scambio reciproco tra chi ha bisogno di aiuto e chi aiuta.

Che cosa avviene allorché un soggetto non è in grado di costruire tale rete? La risposta è ovvia: l’individuo si sente solo anche se egli può avvalersi delle istituzioni di solidarietà.

C’è un altro aspetto, però, che di solito non viene preso in considerazione. L’incapacità di costruire un proprio mondo di affetti condiviso fa sì che l’individuo avverte il pericolo di ritrovarsi in uno stato di abbandono o di affidamento a persone estranee. Una delle difese più frequenti da tale pericolo è l’attaccamento al denaro, che viene considerato come uno strumento di potere relazionale.

E’ sicuramente eccessivo ritenere che il bisogno alienato di denaro che caratterizza il nostro mondo possa essere ricondotto univocamente a questa difesa. E’ un fatto però che le persone più attaccate al denaro sono anche, in genere, le meno capaci di stabilire autentici rapporti affettivi.

Dato che l’uomo nasce e vive all’insegna dell’appartenenza, il salto di qualità che essa comporta tra la fase evolutiva e quella adulta non viene sufficientemente rilevata. Il bambino è un essere bisognoso di affetto, ma le sue capacità di produrlo attivamente sono molto limitate. Egli dipende dunque dalla capacità empatica e sentimentale dei grandi con cui si rapporta.

Anche l’adulto è bisognoso di affetto, ma egli può produrlo attraverso manifestazioni positive del suo essere in conseguenza delle quali l’amore che riceve è quello che lui è riuscito a generare nell’altro.

Il bisogno sociale umano va dunque interpretato come espressione di un’esigenza la cui realizzazione autentica è attiva. Tale realizzazione postula, però, un’identità ricca e differenziata.

Come fa un soggetto che evolve in un determinato contesto socio-culturale e si impregna dei valori normativi a conseguire un’identità del genere?

Ogni cervello umano riconosce potenzialità comuni a tutta la specie (come per esempio quella di acquisire un linguaggio), ma anche caratteristiche specificamente individuali. In ogni corredo genetico si danno dunque aspetti che favoriscono l’interiorizzazione di una cultura e l’omologazione del soggetto ai valori suoi propri. Un bambino al quale si insegna che un determinato frutto si chiama mela, acquisisce questo sostantivo senza preoccuparsi affatto che il nesso tra l’oggetto e il significante è del tutto arbitrario. Solo quando, acquisita la lingua madre, si aprirà allo studio di altre lingue, apprenderà che quel frutto può essere anche denominato apple, pomme, manzana, ecc.

L’appartenenza ad un gruppo implica, dunque, inevitabilmente un’omologazione culturale che, ovviamente, non riguarda solo il linguaggio ma anche le tradizioni, la morale, i costumi, il senso comune, ecc. Il meccanismo per cui la cultura si replica di generazione in generazione con meccanismi che sono in gran parte inconsci spiega sia la tendenza verso il conformismo sia la convinzione, largamente diffusa, che la propria cultura sia superiore a tutte le altre (etnocentrismo).

Se funzionasse solo questo meccanismo, le personalità, almeno all’interno di un gruppo etnico o culturale, sarebbero poco differenziate e più monotone di quanto siano.

Le caratteristiche specificamente individuali si attivano lentamente nel corso della fase evolutiva e raggiungono il loro acme con l’adolescenza. Esse promuovono un processo più o meno spiccato di differenziazione, che comporta una messa in discussione dei valori trasmessi e il loro adattamento, che al limite può essere anche un cambiamento radicale, alla vocazione personale ad essere.

Il carattere talora drammatico della crisi adolescenziale fa capire con chiarezza che, al di là dell’appartenenza, esiste nell’uomo una spinta a realizzare una personalità in qualche misura originale rispetto al contesto ambientale: una spinta intrinseca al cervello umano, che si può ricondurre ad un bisogno di individuazione.

A che serve un bisogno del genere?

A compensare il peso dell’omologazione culturale, e ad inaugurare il tragitto verso la libertà e l’autenticità.

Per un verso, infatti, esso spinge l’individuo alla ricerca di un modo di essere personale, caratterizzato da scelte che possono essere anche dissenzienti rispetto a quelle prescritte o favorite dal gruppo, alla definizione di un suo mondo di valori morali e culturali, e alla costruzione di una rete di rapporti significativi con altri esseri.

Per un altro, rende l’uomo autentico perché, allentando il riferimento alla necessità di percepire e di realizzare se stesso secondo i criteri normativi della società, lo porta sulla via di recepire e rispondere ai bisogni che sono radicati nel suo essere e fanno capo al suo corredo genetico.

Un errore che si commette regolarmente quando si parla di individuazione è di ritenere che essa concerna solo le manifestazioni più “spirituali” dell’essere, vale a dire la coltivazione del mondo interiore, l’attività intellettuale, ecc. In realtà, quando si realizza sulla base di una concezione evoluzionistica e materialistica dell’esistenza, l’individuazione coinvolge la totalità delle manifestazioni vitali. Scegliere di ascoltare Mozart, di leggere un libro di poesie o di parlare con gli amici dei massimi sistemi è sicuramente un modo individuato di investire il proprio tempo in alternativa al televisore o al bla-bla-bla della vita quotidiana. Non lo è di meno, però, alimentarsi ascoltando solo le reali esigenze del corpo, fare l’amore rispettando i bioritmi del desiderio che fasicamente si incrementano e si allentano, rapportarsi agli oggetti in rapporto al loro valore di uso piuttosto che di consumo o di status (per cui un foglio di carta e una penna che mi consentono di oggettivare i miei pensieri valgono infinitamente di più di un Rolex al polso, che inibisce la capacità spontanea di orientarsi in rapporto al tempo).

Alla domanda iniziale – di cosa ha veramente bisogno l’uomo – si potrebbe pertanto rispondere semplicemente: di intrattenere un legame significativo con il mondo sociale, con il quale condivide parecchie cose, e al tempo stesso di un legame significativo con se stesso, con il suo mondo interiore, che promuove uno sviluppo della sua personalità in qualche misura espressivo della sua vocazione ad essere.

Sarebbe ingenuo però non considerare che un equilibrio tra i due bisogni si realizza molto raramente, per un motivo molto semplice. La natura ama la varietà, tanto è vero che produce, eccezion fatta per i gemelli, corredi genetici unici e irripetibili; la cultura, viceversa, tende sistematicamente a ridurre la varietà genetica, a ricondurre le persone verso un comportamento medio, ritenuto normale all’interno di una determinata società.

Questo conflitto si può ritenere universale, ma è evidente che esso ha un’incidenza diversa nelle diverse società e nelle diverse epoche storiche.

Un antropologo – Lévi-Strauss -, semplificando un po’ le cose, ha distinto culture fredde e culture calde. Le culture fredde sono relativamente statiche. Dato un sistema di valori prodotto dai predecessori, esse tendono a conservarlo a tempo indeterminato, rifuggendo da qualunque cambiamento. Al loro interno, l’individuazione non ha quasi senso, se si fa eccezione per ruoli dovuti ad attitudini particolari riconosciute dal gruppo (come per esempio quello dello sciamano). L’individuo vive se stesso in funzione del gruppo con il quale fa corpo e le cui tradizioni rispetta scrupolosamente. E’ insomma omologato e conformista, ma questo non sembra turbarlo, perché la comunità nella quale vive è ugualitaria, coesa e solidale.

Le culture calde sono culture dinamiche che vanno incontro a rilevanti cambiamenti nel corso del tempo, anche se con ritmi diversi. Tutte le culture storiche sono calde. La nostra – oserei dire – è addirittura surriscaldata. Un’espressione di questo surriscaldamento è la percezione soggettiva di bisogni illimitati, che produce un senso di carenza e un’insoddisfazione permanente.

E’ possibile capire questo fenomeno a partire dalla teoria dei bisogni intrinseci? Penso di sì, se ci riconduciamo alla storia sociale.

6.

La teoria dei bisogni intrinseci implica una programmazione del cervello, il cui obiettivo è l’integrazione dei bisogni stessi, che però deve fare i conti con la cultura.

Nessuna cultura è riuscita sinora a promuoverne uno sviluppo equilibrato. La storia attesta che per un lunghissimo periodo, che, nella nostra civiltà, giunge fino al Rinascimento, il bisogno di appartenenza – riferito sia alla comunità che al gruppo parentale – è stato privilegiato imponendo una certa mortificazione del bisogno di individuazione.

La nostra civiltà si fregia del titolo di aver valorizzato al massimo grado la libertà individuale il cui unico limite è il rispetto delle Leggi che governano l’interazione civile. C’è qualcosa di vero in questo. La nascita dell’individuo borghese, che rivendica il diritto all’autorealizzazione, è una rivoluzione in quanto fa capo all’intuizione che le potenzialità di sviluppo dell’essere umano non sono determinate dallo status di nascita. L’autorealizzazione borghese non poteva avvenire che sulla base di una dedizione completa al lavoro: è solo la ricchezza, infatti, che ha consentito alla nuova classe di scalzare l’egemonia nobiliare.

L’etica borghese del lavoro si intreccia, poi, con gli sviluppi della tecnologia che avviano l’industrializzazione. Anche questa è una rivoluzione perché la razionalizzazione dei processi produttivi consente di rendere disponibili beni in quantità incommensurabile in rapporto al passato.

Purtroppo questi cambiamenti avvengono all’ombra di un’ideologia – quella capitalistica - i cui esiti risulteranno psicologicamente e sociologicamente disastrosi. Il capitalismo muove infatti dal presupposto che i bisogni umani sono infiniti e concreti mentre le risorse naturali sono scarse. Esso dunque non può che tendere verso uno sviluppo illimitato al fine di ridurre questo scarto.

L’intento del capitalismo sembra umanitaristico: concedere a tutti gli esseri umani l’accesso al benessere e ad un tenore di vita dignitoso se non addirittura agiato.

Che cosa c’è di disastroso in questa ideologia? Il presupposto di partenza secondo il quale i bisogni umani sono infiniti e possono essere soddisfatti attraverso il possesso, l’uso e il consumo di beni materiali.

La tensione verso l’infinito non l’ha creata certo il capitalismo. Essa, come sanno coloro che hanno letto l’articolo su Cervello, Mente e Infinito è un aspetto costitutivo dell’apparato mentale umano, il cui significato naturale è di promuovere la solidarietà degli esseri umani nella lotta contro i molteplici mali che incombono su di essi. Il capitalismo, piuttosto, ha semplicemente recepito questo aspetto sfruttando il lungo condizionamento esercitato dalla religione su di esso, rivolgendo sulla terra quella tensione e offrendo all’uomo, in una certa misura, un miraggio più concreto, se non più allettante, rispetto alla felicità ultraterrena.

La mondanizzazione della tensione verso l’infinito, però, ne ha distorto completamente il significato. Anziché promuovere la solidarietà degli esseri umani, essa infatti li ha messi in uno stato di aspra competizione per il possesso di risorse che sono scarse, determinando l’avvento dell’individualismo, dell’egoismo e dell’edonismo.

Affrancando l’uomo dai vincoli di gruppo opprimenti, in quanto limitativi del suo potenziale di individuazione, il capitalismo ha ridotto l’appartenenza sul piano della collocazione dell’individuo su di una scala gerarchica organizzata sulla base dello status.

Al tempo stesso, esso non ha favorito affatto l’individuazione perché lo status non fa riferimento all’essere, ma all’apparire, e dunque non richiede la coltivazione dell’essere ma solo l’ostentazione di segni da cui si ricava l’entità della ricchezza.

L’anestetizzazione della sensibilità sociale e l’omologazione sulla base dell’immagine: questi sono i risultati psicosociologici del capitalismo. Essi, dunque, per un verso e per l’altro, mortificano e alienano il patrimonio dei bisogni intrinseci.

Se questo è vero, si può fornire un’ulteriore risposta alla domanda iniziale. Anche se la sua mente è aperta sull’infinito, l’uomo ha bisogno di accettare e di coltivare la sua finitezza individuale, espandendola sia nella direzione di una socialità significativa che di un mondo interiore ricco, articolato e differenziato. Su questa base, è più semplice operare una distinzione tra bisogni autentici e falsi bisogni, scampando alla trappola dell’ideologia e del moralismo.

Bisogni autentici sono quelli la cui realizzazione aumenta il valore sociale, affettivo, morale e culturale di un individuo che, nondimeno, riconosce la sua finitezza. Falsi bisogni sono quelli che spingono l’uomo a tentare di azzerare lo scarto tra la sua finitezza e l’infinito, animando in lui desideri che lo trasformano in un frenetico animale da cinodromo che insegue una lepre meccanica.

Questa definizione, oltre ad essere abbastanza neutrale, ha molteplici vantaggi sul piano teorico. Essa, intanto, pone in luce il punto debole della natura umana – l’intuizione emozionale dell’infinito che sottende l’apparato mentale -, che rappresenta la matrice dell’alienazione dei bisogni umani e la loro manipolabilità da parte della cultura. In secondo luogo, la definizione va al di là del consumismo, cui solitamente si riduce il discorso sui falsi bisogni. Essa, infatti, permette di definire due caratteristiche da cui si può risalire ai falsi bisogni: l’unilateralità e la compulsività.

Un bisogno è falso quando esso riduce la ricchezza dell’essere umano a perseguire univocamente un solo obiettivo. Il consumismo riferito a beni di consumo rientra senz’altro in questo ambito, ma ci rientra, per esempio, anche il perfezionismo morale, in conseguenza del quale un soggetto pratica la virtù dell’altruismo sacrificale per catturare di continuo conferme sociali. L’edonismo è un falso bisogno perché induce ad orientarsi verso una vita che comporti solo piaceri e non faccia mai i conti con ciò di negativo che si dà nell’esperienza individuale e nel mondo. Ma è un falso bisogno anche l’ascetismo masochistico, il quale nega che l’uomo, pur affrontando le avversità della vita, debba perseguire anche il piacere di esistere.

L’unilateralità va a braccetto con la compulsività, vale a dire con una spinta motivazionale incoercibile ad agire reiteratamente determinati comportamenti dai quali l’individuo intende ricavare un appagamento della sua tensione.

La compulsività è un aspetto specifico della nostra società. Esso è indiziario del fatto che la convinzione prodotta dal capitalismo che l’essere umano ha bisogni infiniti e la secolarizzazione che allontana masse crescenti di cittadini dalla credenza e dalla pratica religiosa hanno concorso a porre l’uomo di fronte alla sua intollerabile finitezza e ad orientarlo verso il miraggio di poter colmare in qualche modo la sua mancanza ad essere. Sulla base di questa angoscia tutto – mi verrebbe da dire – fa brodo: il lavoro compulsivo, il desiderio illimitato di denaro, il consumismo di beni materiali, il culto dell’immagine estetica, lo sport, l’alcol, la droga, il sesso. Gli affetti stessi sono diventati compulsivi: molte madri hanno un atteggiamento iperprotettivo e morboso nei confronti dei figli, molti soggetti inseguono un rapporto duale fusionale, ecc..

Neppure gli intellettuali e gli spiritualisti si salvano dalla compulsione. Alcuni intellettuali hanno l’ambizione smodata e ingiustificata di passare alla storia compilando libri di maniera. Gli spiritualisti inseguono il sogno di un’armonia totale con l’Uno o con il Tutto, che non si capisce bene cosa siano se non sostituti di Dio. Ambigui sostituti: il cielo stellato suggestiona e dà l’idea che il Cosmo sia armonioso. Ma non è vero. Il Cosmo, che si sta espandendo e raffreddando, comporta isole di vuoto e frammenti di materia in convulsione. Se si va al di là delle apparenze, è lo specchio della nostra mente troppo fredda e inerte per alcuni aspetti e troppo surriscaldata per un altro.

Tutti i falsi bisogni riconoscono la loro matrice nei bisogni intrinseci di cui si è parlato. che, in conseguenza delle influenze ambientali e dei modi in cui i soggetti interagiscono con esse, assumono una configurazione alienata. L’alienazione riguarda di solito sia la percezione dei bisogni stessi che gli obiettivi sentiti come potenzialmente appaganti.

Fare un’analisi dei bisogni alienati che sottendono l’esperienza di un gran numero di persone nel nostro mondo fuoriesce dai limiti dell’articolo.

Basterà dire che il bisogno di appartenenza/integrazione sociale riconosce due fondamentali configurazioni alienate. La prima consiste nel vivere per gli occhi della gente, perseguendo l’obiettivo di sentirsi normali in quanto confermati dai giudizi sociali. Questa’alienazione porta sul terreno del conformismo e della normalizzazione.

La seconda consiste nel negare il bisogno di appartenenza e nel considerare la socialità come una dimensione significativa solo nella misura in cui il soggetto ne ricava dei vantaggi. Quest’alienazione porta sul terreno dell’egoismo e della strumentalizzazione dei rapporti interpersonali e sociali.

En passant, specifico che la concezione moralistica dell’egoismo, per cui esso viene identificato con una condizione per cui l’individuo pensa solo a sé è impropria perché confonde egoismo e egocentrismo. L’egoista pensa a sé ma, per curare i suoi interessi, ha bisogno degli altri non fosse altro che per sfruttarli.

Anche il bisogno di opposizione/individuazione riconosce due fondamentali configurazioni alienate. La prima consiste in una sterile rivendicazione di libertà totale per cui il soggetto rifugge da ogni impegno o vincolo significativo con la realtà. Questa alienazione porta spesso il soggetto sul terreno di un opposizionismo cronico nei confronti della società e delle leggi della vita, la cui conseguenza è di impedire un processo di autorealizzazione.

La seconda configurazione, viceversa, è identificabile nel narcisismo, vale a dirsi nel darsi un valore e un’importanza che va al di là delle proprie potenzialità e dei propri meriti e nell’agire di continuo per propagandare a livello sociale questa immagine di sé. Questa alienazione porta il soggetto sul terreno di acquisire uno status privilegiato ad ogni costo e con qualunque mezzo.

Se si riflette su queste quattro configurazioni alienate, si capisce in quale misura esse promuovono, in modi diversi, un’esperienza falsificata che costringe a sopperire all’insoddisfazione che esse generano con oggetti, persone e pratiche di vita utilizzate come protesi di una personalità iposviluppata.

7.

La teoria dei bisogni intrinseci, come programmi genetici che sottendono l’evoluzione e la strutturazione della personalità, è il mio migliore prodotto intellettuale. Essa è però implicita nella concezione antropologica di uno dei miei maestri, Marx. Per amore di verità, devo dire che all’antropologia marxiana ha dedicato una sottile attenzione E. Fromm, a cui ho attinto parecchio.

L’interesse di Marx, nonostante egli sia passato alla storia come un economista critico, è l’uomo, e lo scopo della sua intera opera è la liberazione dell’uomo dal dominio degli interessi materiali, dalla prigione che la sua stessa azione, producendo beni, cultura e istituzioni, gli ha costruito intorno. Centrale in Marx è il concetto di alienazione e di falsa coscienza. La coscienza per Marx è un fenomeno sociale: per molti aspetti, inesorabilmente, è l’opera di forze sociali repressive, quindi falsa coscienza.

Marx ignorava l’esistenza dell’inconscio, anche se la sua antropologia implica che dietro la falsa coscienza si diano aspetti della natura umana inespressi, repressi e rimossi. Questi aspetti, che io riconduco ai bisogni intrinseci, Marx non riuscì a definirli. Rimane però il fatto che egli, nonostante valorizzasse la socialità dell’uomo, era del tutto ostile al livellamento e alla completa perdita dell’individuale nell’impersonale e anonimo collettivo. Egli proponeva il libero e pienosviluppo dell’individuo come condizione basilare per la libertà di tutti. Parlava non per caso di una coscienza universale, vale a dire una coscienza consapevole della sua appartenenza alla storia della specie e alla storia sociale tout-court, e pertanto aperta a coltivare rapporti significativi con il mondo sociale, ma, al tempo stesso, differenziata, critica e capace di operare scelte libere dai condizionamenti culturali.

Con la nozione di coscienza universale, Marx ha proposto agli esseri umani un obiettivo molto elevato, ma che trova riscontro nella loro natura, dotata per l’appunto dei due bisogni intrinseci di cui ho parlato, e la cui integrazione è necessaria perché l’individuo raggiunga uno stato che si può definire di umanizzazione.

Si può considerare tale obiettivo un’utopia, ma c’è almeno un ambito dell’esperienza umana che fornisce di continuo prove della sua fondatezza.

Non sono giunto a formulare la teoria dei bisogni intrinseci partendo da Marx o da Fromm, bensì cercando di trovare una chiave che consentisse di dare senso alla sofferenza psicopatologica. La chiave – posso dirlo dopo oltre trent’anni di attività psicoterapeutica – funziona. Per chi la adotta, riesce immediatamente evidente che ogni sintomo, vissuto o comportamento psicopatologico è riconducibile ad una scissione dinamica del patrimonio dei bisogni, tale che essi, anziché integrarsi, si pongono in opposizione irriducibile. La conseguenza della scissione è che le personalità sono governate o da un bisogno di socialità compulsivo (dall’altruismo sacrificale perfezionistico alla ricerca ossessiva di una relazione duale di amore) o da un bisogno alienato di individuazione che comporta il narcisismo, l’egocentrismo, la chiusura al mondo, l’anestetizzazione empatica, la durezza, la diffidenza e, talora, l’aggressività.

E’ singolare che la scissione promuove sempre, a livello inconscio, compensi di vario genere – tra cui i sintomi stessi – attestando non solo che una parte dell’inconscio (quella non culturalizzata) rimane sana, ma che essa, urtando contro l’ostacolo opposto dalla coscienza, continua a spingere nella direzione dell’integrazione dei bisogni. Di fatto, le situazioni migliorano solo quando i soggetti si arrendono a recepire tali messaggi e si orientano verso una vita più rispettosa della loro natura e della loro vocazione ad essere.

Questo conferma, a mio avviso, che il cervello umano è programmato sulla base di bisogni autentici. Il problema, come ho scritto più volte, è che la natura, producendo questo formidabile e inquietante “congegno” ha dimenticato di accludere ad esso il libretto delle istruzioni. Il lapsus non è irrimediabile, ma richiede un impegno estremo per scampare alla trappola dell’alienazione dei falsi bisogni che essa produce e imboccare la via dell’umanizzazione.